Il sangue vivo della mia disperazione

Avere fede. Fede. Io devo avere fede. Per voi che non sapete chi sono, per me che non so chi siete, per me che non so chi sono, però ho fede. Non so se sarò mai libera. L’anarchia. L’anarchia dello spirito che non si fa trattenere in futili discussioni sul nulla. E l’amore che lentamente si insinua nei solchi del mio volto, nella mia carne bianca e non fa più lacrime, solo cieca fiducia o rassegnazione. Non sono malata, sono viva. Guarire: non sopprimere più nessun desiderio. Vi chiedo scusa se mi leggete, perchè sono sconnessa e frammentaria. Ma ho bisogno di voi e ho fiducia che imparerò un’unità.

Una concatenazione di cause mi ha guidato fino a qui. Sul sentiero di sassi ho visto la luce in una forma strana, e la gigantessa ombra alle calcagna mi ha detto tu morirai, tu toccherai i fondi oscuri per risorgere, forse. Mi stufo anche di questo parlare, non vorrei aver bisogno di miti o di metafore, vorrei essere nuda, sincera e semplice come la terra.

Non esistono più le stagioni, il tempo è fluido non ci da indicazioni. La mia anima si è forgiata nell’autunno dopo l’estate, nell’inverno e nella primavera. Di fronte ad un gran gielo io non ero che una bambina assetata d’acqua, nelle vampate afose di caldo ero un’ape con la faccia piantata in un bocciolo di lavanda, inebetita dai profumi, in estasi suprema. Vorrei ancora un tempo scandito, una ciclicità lampante.

Dillo. Dillo che cosa significa per te essere vivo. Io mi metto in ascolto. Io sono pronta a frantumarmi in mille cocci. Non vedi come sono già divisa?

Ed un lavoro soltanto mi spetta: essere tutt’una. Tutta d’un pezzo. Un’ampolla da cui puoi bere. Ma non è questo il tempo. Questo è il tempo in cui vado in mille pezzi per il mondo, dentro una pancia affamata scarnificata che non chiede altro che qualche parola, qualche sguardo animale pregno di significato; dentro gli occhi di un’anima in pena, di una bambina costretta a vendere il proprio corpo; nello sguardo di un uomo straniero e gentile che mi dice che sono bella e mi desidera.

Io ero negli ultimi degli ultimi il luccichio degli occhi, la lacrima che cade sulla sabbia e frigge al sole. Ora sono dentro un cavo digitale: un grido tormentato. E invece vorrei essere un vino alle erbe da trangugiare che curi da ogni male.

Questa mia ossessione per gli altri, quest’angoscia di decifrarli di curarli di renderli amici mi viene da un profondo isolamento, da una prigione in cui sono stata per anni, ragazzina assetata di altri occhi e di altri corpi. E il colmo è che lo sarei ancora se non opponessi resistenza. Ero disperata, disperata.

Ed ora torno nel luogo dei miei ricordi per trovarlo uguale eppur diverso, e vorrei riassaporare il sangue vivo della mia disperazione, ma qui è un deserto che non lascia scampo. E vorrei tirar via mio padre e mia madre e mio fratello e mia sorella e il suo bambino e suo padre da questa siccità angosciosa, da questa terra crepata di bestialità. Vorrei essere l’acqua che scorre e impregna i campi, scrosciare sopra i giunchi e i massi, sotto gli arbusti spinosi: l’acqua che salva il verde. E invece mi accorgo che sto seccando anch’io, che la mia anima anela un ricordo depredato e il mio cuore è stanco e si arrende.

Eravamo bambini sacri, correvamo nella valle come l’avessimo fatta noi con i nostri polsi piccini. Facevamo il vino con gli aghi di un cespuglio, giocavamo con il bambù, costruivamo cattedrali di rami e saltavamo dappertutto come cavallette di giugno e poi a quattordici quindici anni seduta di fianco alla balaustra ero tutta impregnata di poesia; il canto degli uccelli mi gettava in un turbinio assettato, ero tutto ciò che vedevo attorno a me, ero terra, aria, acqua, vento, sole, anima. Ero anima così facilmente, così facilmente. Dio mio io non chiedo altro che questo, con la differenza che ora so che non può esistere anima senza un corpo che la rispecchi.

Sono un virgulto verde nella tomba del mondo

Il terrore: convintamente affermare, sentenziare render vero ciò che è pensiero, in principio, ciò che è nulla e poi è. Voglio dirmi limpida come un’acqua; esser fungo salato saltato fritto in olio bollente aglio e bacche di ginepro è più semplice.

Siamo prodotti della storia, eppure quella che cerco è la più meticolosamente invisibile. Di che storia parlano gli altri? Siamo educati all’arte della dimenticanza, il più antico mestiere dell’uomo: dimenticare e poi, con grande generoso forte sforzo ripercorrere i gradini della memoria a ritroso, riscoprire cosa era stato e non è più. Chiaro e tondo il risultato è qualcosa di innumerevoli esponenziali diverso. Ci beviamo un bel frullato?

Ho perso un miliardo di volte il filo del discorso. Il pensar logico non sta più in alto, non è la via santa della comprensione. E poi, si tratta di aver compreso cosa? No.

Umili, spalancati, ricettivi. Zittiamo gli scricchiolii e aspettiamo, senza sapere niente, umani, teneri, apostolici; ciò che arriverà non sarà linguaggio, non sarà codice, non sarà matematicamente comprensibile, non potrà essere barattato né corrotto. Come sarà non ci è dato saperlo. E potrebbe essere che nel bagliore accecante del nulla le nostre arzigogolate materie si distruggano, le nostre membra si disgreghino. Se dev’essere, sia.

Cosa voglio nel mentre?

Esser viva come una rana nel mondo.

Oh Domatore, Rematore del nulla

Non esiste Dio all’infuori di me. Ed io non lo cerco altrove. Di che cosa sto parlando?

Un armatore, un’ossessiva edulcorante passione. Una distrazione, un anestetico per cavalli. Rigettatemi nel vuoto, non voglio stare qui lì di sotto né di sopra. Essere grandi, essere adulti, essere giovani donne senza casa, adolescenti, bambine impiegate alle poste cameriere pizzaiolo donnaiolo mangiascarpe tuttifrutti cenerentola coccodè trullalà oilìoilè ruspa fumigattolo calzolaio o puliscivetri. Essere qualcosa, pur non essendo niente all’infuori di noi qui ora e oplà l’istante insegue sé stesso per farmi rinascere ancora e ancora e ancora. Ed io, ora, sono il gobbo delle lenzuola, sono una lucertola digitale un canale distorto, un serpentello addomesticato con la coda recisa, un rimasuglio di cena, tesoro, non ho fame, faccio il digiuno. Marmoreo, cinque lettere qualunque ovvietà nel nome, buon vecchio marpione.

Se lo chiamassimo in un altro modo sarebbe la stessa cosa? E se non lo chiamassimo affatto? Io opto per la diramazione casuale. Per la legge del cieco. Per la legge del bivio.

E tu?

La scrittura che vorrei è nell’acqua

Un cielo a Marzo, con le rondini un suono inverosimile e balordo, di piroette e pizzicotti. Io vorrei scrivere come il sentimento che mi pervade. Io vorrei scrivere come il cieco.

Una preposizione inizia con una negazione assoluta, eppur continua a determinare sé stessa, non finirebbe mai. Io vorrei liberare la scrittura dei vincoli che la opprimono. E se mi domando la natura di questi, la risposta è in me. Nell’essere umano.

Una scrittura libera, scevra da pregiudizi, immensa e incompiuta; una scrittura del vivere è impossibile. Le parole ragionano per limiti. Ed io allora provo ad applicare la tecnica della quantità, dell’accatasto. Una miriade di espressioni di aggettivi di congiunzioni verbi suoni onomatopeici parole inesistenti si posizionano sul foglio senza logica od intenzione eppur dicono qualcosa, ma non quel che vorrei. Quel che creo non è veicolato da me, nasce: è padrone del proprio significato. Io divento allora macchina paroliera, generatore casuale di segmenti pregni di significato. Un significato soggettivo.

Qual è l’opposto di questo? La poesia? Una poesia ricercata ed essenziale? Selezionata e minima, qualche parola appena, ben disposta, cinque o sei paroloni giganteschi Dio, Luce, Acqua, Specchio, Io, Tu? E poi?

Forse la scrittura che desidero è nell’atto prima della sua realizzazione. E’ nel momento in cui l’intenzione nasce in me, e appena prima che le dita prendano a picchiare smodatamente sulla tastiera. La scrittura che cerco è nell’acqua, e non lascia traccia di sé, non può essere consumata e riconsumata fino a divenire una nausea insopportabile. Quella scrittura è allora qualcos’altro, lo sconosciuto, il possibile che mi terrorizza. Ed io non posso su di lei e lei può su di me: dimezzarmi, scompormi e ricompormi diversa.

E’ l’accettazione della mia impotenza, l’accettazione della mia inverosimiglianza della mia fugacità, del mio insignificante e breve bagliore di vita.